Una certa idea di fatica

Ne stiamo parlando tanto nelle ultime settimane qui su RL, di sveglie al mattino presto, corse a temperature artiche, sistemi per difendersi dalla pioggia e dalla neve (o meglio arrendersi, senza patirne troppo le conseguenze). A un’occhiata distratta tutto ciò probabilmente darà l’impressione di una specie di delirio masochistico di massa e forse un po’ effettivamente lo è.

Forse però vediamo un senso di fronte al sacrificio, se noi praticanti asceti in movimento riusciamo a parlarne sempre con entusiasmo cercando di coinvolgere le persone che abbiamo attorno. Il significato è diverso per ciascuno di noi, e fino a quando non ci si immerge, letteralmente, nella fatica è impossibile vederlo.

Questa settimana posso dire di averne fatta tanta di fatica: 3 sessioni di nuoto tutte ultra veloci, 4 serie di circuit training con ripetute da 2000m tirate al massimo, un combinato nuoto-bici e una mezza maratona in cui ho dato tutto, migliorando di 1′ e 20″ il personale (ne sono testimoni i dolori che ho avuto ai muscoli il giorno dopo. No non alle gambe. O meglio non solo, per lo più a braccia, spalle e schiena!).

Alla domanda “perché lo fai?” si possono dare mille risposte, ognuna valida (come nel bellissimo video del New York Road Runners Club) ma in realtà il nocciolo della questione è un altro, è un presupposto che dà senso a tutte le ragioni che vi costruiamo sopra, a posteriori. Affrontare la fatica, sopportare il dolore, provare a fare qualcosa che “è difficile” significa superare le nostre paure. E’ come guardarsi in faccia e riconoscere noi stessi nel profondo, liberati dalle maschere, dai pregiudizi e dalle convenzioni. In qualche modo cercare di essere completamente liberi in una realtà piena di limitazioni.

Quasi sempre, quando dopo il lavoro mi metto in macchina per andare in piscina o al campo di atletica, sono preda del classico pensiero “ma chi me lo fa fare/sono stanco”. Serve un enorme sforzo per non dirigermi direttamente sul divano di casa a stravaccarmi. E’ solo dopo i primi 200 m di nuoto, dopo la prima ripetuta sulla pista, dopo i primi10’ di bicicletta che si accende la lampadina. Sì, è proprio un illuminazione off-on; ogni volta all’allentarsi della tensione del corpo corrispondente all’inizio del sudore si accende un unico pensiero: “questo sono io, questo è il vero me stesso”. E poi la mente diventa tutt’uno con il corpo, prima di fondersi con l’aria che respiro e la terra che calpesto. Da lì in avanti è tutto facile fino a quando l’acido lattico non mi riporta alla realtà…

A proposito di abitudine al lattacido, il programma verso Panama Beach procede bene. Tutti gli indicatori “matematici” dicono che la mia soglia anaerobica si sta alzando e in maniera inversamente proporzionale i tempi scendono. Il personale sulla mezza maratona (1’31’49”) è una bella iniezione di fiducia che in teoria mi proietta a circa 3h20’ sui 42k (maratona “stand alone” s’intende, non certo quella dell’Ironman). Anche se l’obiettivo realistico sarà solo cercare di finirla, questa gara, non riesco a non pensare ai ritmi che dovrei tenere per agganciare uno slot per Kona. Lo so, lo so, sono un pivellino, lentuccio e di risotto ne devo ancora mangiare tanto (come si dice in Brianza) ma senza sognare in grande non sarei capace di raggiungere neanche obiettivi piccoli. Son fatto così.

Le tabelle dettagliate delle prime 6 settimane di preparazione su “L’era del ferro

(Pic by Michelle Hulstrøm from 500px.com (http://500px.com/photo/18778211))

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