Ogni volta che muoviamo un passo in allenamento o in gara, ogni volta che il sudore comincia a scorrere sulle nostre guance, ogni volta che facciamo salire il battito del cuore, facciamo un viaggio dentro noi stessi. Ma alcuni allenamenti, alcune gare sono un viaggio speciale, di quelli che ti cambiano.
Dubbi
Il triathlon 70.3 Rimini Challenge (così detta distanza Mezzo Ironman) per me è stato esattamente questo, un’avventura in cui ho dovuto confrontarmi con paure, limiti e debolezze e che alla fine mi ha fatto imparare qualcosa in più su come funziona il mio corpo ma soprattutto la mia testa.
Era la seconda volta su questa distanza (1,9 km a nuoto, 90 km in bici, 21 km a piedi) ma di fatto come se fossela prima. A Lido di Volano, un mese fa, ero ancora ferito dalla maratona di Roma, e impreparato. Qui ci sono arrivato sapendo di essere ben più allenato, sano e con la consapevolezza di ciò che mi aspettava, se non altro per aver potuto provare il circuito bike un paio di volte.
E forse proprio per questo già da venerdì ho cominciato ad essere molto teso, perché dopo due mesi in cui avevo accampato tante belle scuse per il mio scarso rendimento mi sono trovato di fronte ad una vera e propria verifica, davanti a un sacco di gente.
Il giorno della verità
Domenica ore 06:30, apro gli occhi e corro alla finestra. Il cielo grigio scarica una pioggia torrenziale, il vento forte tende le bandiere, il mare è scuro e tormentato dalle onde. Mi preparo ad uscire, copro mia moglie con la cerata pensando più al freddo che prenderà lei che a quello che mi aspetta in bicicletta (ci sarebbe tutto un libro da scrivere sulla pazienza delle mogli\fidanzate\compagne dei triatleti). I due chilometri che mi separano dall’area di transizione sono lugubri, poi però, una volta insieme ai compagni di squadra della Polisportiva Porta Saragozza Bologna, con i sorrisi e gli incitamenti torna anche il coraggio.
Come al solito mentre preparo la postazione per il cambio (ci sono sempre tanti dettagli da curare) il cuore sale di giri e l’adrenalina inizia a pompare dalle ginocchia. Non sento neanche più il freddo per la tensione, neanche quando dopo aver infilato la muta ci troviamo tutti insieme sulla sabbia gelida all’interno delle gabbie di partenza.
Salvate il soldato Ryan
Lo start è diviso in quattro wave da circa 250 atleti l’una, a me toccala terza. Quando quella davanti a noi parte e la nostra viene fatta avanzare fino alla fettuccia del via è come vedere la scena iniziale di “Salvate il soldato Ryan”. Un nugolo di braccia e teste sbatacchiato dalle onde lotta contro la corrente in direzione della prima boa, punto giallo ben visibile dalla spiaggia ma che immagino molto meno identificabile una volta in acqua.
Cerco di concentrarmi unicamente sulla direzione da prendere, non troppo dritto alla boa per non “scadere” a causa della corrente e dover procedere a zig zag, ma neppure troppo esterno come vedo fare ad alcuni. Poi all’improvviso suona la sirena e mi ritrovo in acqua. Saltello sopra l’onda a riva, il fiato rotto, le gambe che si induriscono, fino a quando non avanzo più e sono costretto a buttarmi.
Galleggio, onda, inghiotto acqua salmastra. Provo a mettere dentro la testa, il respiro è troppo veloce non riesco a buttare fuori l’aria, mi tiro su, di nuovo acqua e sale in gola. Ci provo per un po’ poi mi rendo conto che non sono in grado di distendermi. Opto per la nuotata lenta e in sicurezza con la testa fuori, penso a tenere la direzione precisa. Mi passano in tanti ma non mi interessa, la gara è lunghissima voglio solo tirarmi fuori da questo casino spendendo meno energie possibile. Quando sono nella pancia dell’onda non vedo dove sto andando: “calma e sangue freddo”, penso.
Fino alla prima boa è una lotta poi finalmente quando riesco a girarla comincio a nuotare decentemente, respirando solo a destra perché dal mare aperto comunque continuano ad arrivare le onde (alla fine avrò una leggera escoriazione al collo da quel lato). Prendo il ritmo e quando supero la seconda boa puntando alla spiaggia posso quasi surfare l’onda. Il percorso è stato accorciato a 1,2 km ed è un peccato perché come al solito in mare per i primi due\trecento metri sono un disastro poi vado in progressione.
Esco dall’acqua (dopo 32’, molto lento) e corro a recuperare la bici. Il cambio è buono (4 minuti e rotti) e quando mi metto in sella il sole comincia a farsi largo tra le nuvole. Sono anche sopravvissuto alla frazione per me più critica, tutto sembra volgere al meglio.
All’attacco
Inizio a pedalare sul lungo mare ma mi accorgo subito che qualcosa non va. Non è la bici ma le mie gambe, che sono vuote, e la milza che mi duole. Vado piano, mi passano in tanti. Cerco di mantenere la calma e metto in bocca un po’ di frutta disidratata, bevo un po’ di maltodestrine e butto giù anche una sorsata di sali.
Lentamente la situazione si normalizza, la milza torna silenziosa e le gambe piano piano ritrovano forza. Nel frattempo mi hanno attraversato i pensieri peggiori come “stai ancora pagando gli allenamenti di 7 giorni fa”, che ho scacciato con a fatica. Fino alla prima salita continuo ad essere sorpassato poi torno io, anzi, torno io ma in versione super power. Comincio a spingere come si deve.
Sulla seconda salita capisco che sarà un giorno buono, passo un bel po’ di gente sulla bici da cronometro (ringraziando il coach per avermi costretto a lasciarla a casa) e non solo. Spingo con quanto ne ho finché so che c’è terreno per attaccare, mangiando e bevendo con regolarità. A metà percorso mi dico che devo un po’ risparmiare le energie fino a quando la terza e ultima salita non mi offre la possibilità di effettuare ancora qualche sorpasso. Il finale è difficile, tra falsopiani, calcavia, curve e il fondo irregolare, ma in breve arrivo in zona cambio.
Guardo il Garmin e non posso credere di leggere 3h20’, dieci minuti meglio di quanto fatto in allenamento. Adesso arriva la mia specialità, la corsa.
L’importanza del piano B
Esco dalla T2 galvanizzato, mi metto subito e senza fatica a 4’50” pensando che sia il ritmo perfetto per completare i 21 km e poco più che mi separano dal traguardo. La gamba c’è ma non sono a posto, stavolta è il fegato che poco alla volta mi fa sempre più male. Quando corro soltanto non ho mai problemi del genere e non so come gestirli, penso che forse dovrei mangiare ma l’esperienza del 70.3 predente mi dice che l’equilibrio tra quanto hai nello stomaco e quanto ti serve per andare avanti è molto delicato. Non voglio arrivare alla nausea e quindi mi limito all’idratazione.
Dal sesto chilometro il ritmo scende fino a quando, al 12esimo, ho un gran freddo. Sono al limite dello stop. Per un centinaio di metri sono costretto a camminare, da dentro mi sento urlare che è ora di mettere fine a questa tortura e l’unica cosa che mi impedisce di sedermi sul ciglio della strada è l’illuminazione che forse posso fare un ultimo disperato tentativo di salvarela gara. Riprendo a corricchiare massaggiandomi il fianco finche non raggiungo il ristoro, dove afferro una banana e un bicchiere di cola. Trangugio la banana e per evitare che mi rimanga sullo stomaco butto giù la bevanda zuccherina e gassata. L’effetto è quasi immediato, sento tornare il calore alle estremità, l’anidride carbonica fa ciò che deve e nel giro di qualche minuto sono leggero e pronto a dare battaglia.
Negli ultimi 5 chilometri la falcata è lunga, la schiena dritta, la respirazione lenta, ritrovo il sorriso e, magia, con lui anche di nuovo il passo di 4’50\km. Recupero qualche posizione e entro sul rettilineo del traguardo a braccia alzate, felice. 5 ore 49 minuti 36 secondi.
Qui a Rimini ho spostato ancora più in là i miei limiti, imparando a non farmi condizionare dalle condizioni meteo, affrontare il mare in tempesta, ascoltare i messaggi del mio corpo e non dare retta ai pensieri negativi, trovare le risposte giuste a una crisi seria e a mettere in pratica il piano di salvataggio.
Da oggi l’Ironman Florida è un po’ più vicino.