Traiettorie consigliate per non smarrirsi tra panettoni e parenti

Che strani sono questi giorni a cavallo tra due giorni, incastrati tra le feste da santificare (che  poi ognuno si sceglie il santo che vuole, a casa nostra abbiamo l’immaginetta di Rita Levi Montalcini accanto a quella di Chrissie Wellington), le feste da socializzare (chissà perché, si può essere sociali e socievoli sempre, volendo) e sottratte alla routine. Due settimane di scarico (tabelle dettagliate qui), fortunatamente per me, in attesa di ricominciare a fare molto sul serio con un test di velocità in acqua (2k nuotati a tutta) e una mezza maratona nella prima settimana del 2013 .

Routine suona meglio di tran tran ma è la stessa cosa, quel succedersi regolare di attività e impegni che scandiscono il ritmo della nostra vita. Per lo più ha una connotazione negativa perché richiama alla mente la noia e la mancanza di stimoli, ma se viene associata a qualcosa che semplicemente amiamo fare diventa la parola più bella del mondo.

E allora i pranzi e le cene pantagrueliche obbligatorie, le giornate di chiusura della piscina e della palestra, le visite parenti irrinunciabili, tutto disegna una specie di percorso a ostacoli entro cui infilare lo schema di vita che ti sei cucito addosso, in cui ti trovi tanto bene, che però improvvisamente si trova ospite in casa propria. È incomprensibile, per chi non la prova sulla propria pelle, la bellezza di uno sport nel quale bisogna ripetere per ore o ore sempre lo stesso gesto. Il principio è lo stesso.

Ci sono due aspetti che mi sballano dell’endurance e quindi anche del modo in cui ci si prepara a praticarlo, come se fossero due prospettive micro e macro di vedere se stessi, con coerenza.

Da una parte l’astrazione, la mente che vaga. C’è chi diventa creativo e iper pensante e chi il più delle volte riesce a fermare le rotelline del cervello. E’ il “corpo che pensa” o il Nirvana, a seconda dei gusti e delle inclinazioni personali. Il bello è anche questo, che pur essendo sempre la stessa cosa assume un senso diverso per ciascuno di noi, la quintessenza della libertà.

Poi però c’è la fisicità, la concretezza più estrema. Rifare per chilometri una bracciata cercando di essere ogni volta più inesistente nei confronti dell’acqua, fendere l’aria sulla bici da cronometro galleggiando sull’asfalto bollente e pedalando più rotondi dell’idea stessa di cerchio, lavorare su ogni millimetro di appoggio del piede angolando le braccia per risparmiare anche una sola misera caloria per chilometro. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la metafisica, è anzi tremendamente, quasi volgarmente, una questione di pratica. Che si acquisisce soltanto con la ripetizione infinita dei gesti, alla ricerca della perfezione, che il più delle volte non arriva e che quando viene raggiunta è solo un istante di equilibrio, aggrappato a un fazzoletto di volontà appesa tra il passato da rifare e il futuro da costruire dal nulla.

Lo sport di endurance come la musica blues, nella quale la struttura formale di dodici battute si ripete all’infinito. Dove sofferenza, dolore e rabbia sono il carburante, la necessità di riscatto è la scintilla,  la redenzione dai peccati l’esito e il ritmo solo lo scarto invisibile ma percepibile del processo, come anidride carbonica che esce dai polmoni. Lo schema come salvezza dalle incertezze dell’esistenza, alla disperata ricerca di qualcosa che ci metta in controllo di noi stessi e della realtà che ci circonda. In qualcosa, alla fin fine, bisogna pur credere.

 

I ran into a juke joint when I heard a guitar scream

The notes were turning blue, I was dazing in a dream

As the music played I saw my life turn around

That was the day before love came to town

(When Love Comes to Town – U2 & B.B. King, 1989)

(©iStockphoto.com/mablavo)

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