Abbiamo già detto molto sulla We Run Rome: la corsa agonistica sui 10km organizzata da Nike e Fidal Lazio a Roma la mattina del 31 dicembre. Ne abbiamo descritto il percorso estremamente suggestivo tra le vie della Capitale poco tempo fa ed abbiamo incontrato Valeria Straneo, che dell’edizione dello scorso anno era stata protagonista femminile.
Abbiamo detto anche della particolare attenzione che Nike stava mettendo nell’organizzazione di un evento che non fosse solo una bella pagina di sport, ma anche un’occasione di festa per salutare il 2012 nel modo che noi runners preferiamo: correre!
Non abbiamo nemmeno tralasciato l’aspetto multimediale legato a Nike+ e ai social network. Insomma, l’unica cosa che ancora ci mancava era vivere in prima persona questa gara.
Provarci, sempre.
E così, con la mente piena di buoni propositi per il nuovo anno, eccomi lunedì 31 dicembre alle 8 del mattino di una bellissima giornata di sole a scegliere con quali scarpe avrei corso la We Run Rome: le leggere e scattanti lunarglide4, per provare a migliorare il mio record personale sui 10k? Oppure quell’altro paio di comode e ammortizzate A3, che di solito uso nei lunghi, per non spingere troppo e magari fare qualche foto lungo il percorso? Oppure, chiudo l’anno “being foolish”, come esortava il buon Steve, e mi faccio la We Run Rome, con quel paio di scarpe da barefoot running che ho preso un paio di settimane fa e che ho usato solo per poche uscite per iniziare la mia transizione verso la corsa naturale?
Prendo la mia “folle” decisione, esco di casa, e mi avvio verso lo stadio di atletica Nando Martellini, ai piedi delle Terme di Caracalla, dove è stato allestito il cuore della We Run Rome.
Il rombo di 12000 gambe.
Gli iscritti complessivi alle tre gare (10km competitiva, 10km e 3km non competitive) sono circa 6000: un autentico successo se si considera la partecipazione media a questo tipo di gare.
Dentro allo stadio, in mezzo alla pista di atletica, svettano i due stand principali di Nike, mentre un po’ più defilati si trovano quelli delle varie società podistiche e degli sponsor.
Gli ultimi ritardatari si accalcano al banco per il ritiro del pettorale o per iscriversi alle gare non competitive. I più meticolosi hanno già iniziato un lento e lungo riscaldamento.
Saluto gli amici di Nike, giro un po’ tra gli stand per rilassarmi, e poi inizio a prepararmi anch’io. Mancano trenta minuti alla gara.
Provo a non pensare al fatto che ai piedi ho un paio di scarpe da barefooting senza nessuna ammortizzazione al tallone e mi ripasso mentalmente il percorso della gara.
Dieci minuti di riscaldamento, per abituarmi alla cadenza della corsa barefoot e per sciogliere bene le gambe, sistemo l’ipod e mi metto in griglia in attesa della partenza. Il clima per noi che partiamo nelle retrovie ovviamente è più sereno e quasi festoso rispetto alla tensione agonistica di chi è partito davanti per giocarsi la vittoria.
Alle 11 in punto inizia il countdown dello speaker, seguito dallo sparo dello starter: inizia la We Run Rome.
Una 10k non è una passeggiata, oh no.
Il primo kilometro è un casino! Siamo tantissimi e tra la folla di runners che mi circonda e le insidie dei sampietrini, costeggio il Circo Massimo scendendo verso la Bocca della Verità più attento ad evitare di inciampare o di tamponare qualcuno che al ritmo di gara.
Giro a destra e affronto col coltello tra i denti la prima salita della gara puntando dritto al Campidoglio ed a piazza Venezia.
La calca inizia a ridursi; finalmente il gruppo si sgrana e la mia corsa diventa più regolare e meno zigzagante per evitare i runners più lenti.
Chiudo il primo e il secondo km rispettivamente in 4’30’’ e 4’34’’: sono così concentrato sulla necessità di mantenere il giusto “ritmo” per la corsa barefoot che non mi sono accorto di essere partito con un passo quasi da ripetute brevi.
Attraverso via del Corso tra due ali di folla che applaude e incita noi runners. Solo in occasione della maratona mi è capitato di vedere una così alta partecipazione di pubblico ad una gara di corsa a Roma.
Il lungo rettilineo di via del Corso mi porta in pochi minuti a piazza del Popolo, dove dopo un rapido giro di piazza arriva il momento di affrontare il vero demone di questa gara: la salita del Pincio.
Quattro rampe di 150 metri, che salgono ripidamente verso villa borghese, interrotte da tre secchi tornanti, interminabili e molto impegnative. Il contesto sarà anche fantastico ma, credetemi, questa salita è veramente bestiale
A metà della seconda rampa mi manca il fiato: mi guardo attorno e noto che anche le facce dei runners accanto a me sono un po’ meno festose e sorridenti.
Guardando il percorso sulle mappe non avrei mai creduto di soffrire così tanto su questa salita. Sto affrontando un vero demone, ma non ho intenzione di mollare, anche se le gambe non riescono più a smaltire l’acido lattico e la maggiore frequenza delle falcate imposta dalla corsa barefoot mi sta letteralmente spezzando in due!
Non voglio mollare! E coi polmoni che urlano tutto il loro bisogno di ossigeno finalmente arrivo in cima alla salita ed entro a Villa Borghese. Giro a destra, prendo fiato per un centinaio di metri assaltando il ristoro dei 5 kilometri, alzo lo sguardo e con terrore mi rendo conto che mi attende un’altra salita di almeno trecento metri.
Cerco di alzare le ginocchia e di mantenere la migliore postura possibile, facendo cadere i piedi in linea col corpo, di pianta o di punta, ma sto raschiando il fondo delle mie ultime risorse.
Scollino su via Vittorio Veneto e grazie a Dio finalmente si inizia a scendere!
Like a rolling stone.
Su questo tratto lo spirito competitivo dei runners prende il sopravvento: la salita li ha rallentati e fatti soffrire, ma ora, in discesa, il ritmo diventa forsennato anche qui nelle retrovie. Vedo vecchietti ansimare e spingere sulle caviglie come se fosse l’ultima corsa della vita; ragazze allungare il passo con la testa incassata nelle spalle quasi che il traguardo fosse a quattrocento metri e non invece a quattro kilometri. Non manca nemmeno il simpaticone con il viso deformato dall’eccitazione e dall’adrenalina in circolo che ti affianca e ti da una spallata per farsi strada.
Pochissimi minuti di discesa e poi si risale di nuovo, nella disperazione generale, verso via del Tritone. Trecento metri di pendenza da skilift che in cui supero parecchia gente che non è riuscita a recuperare dalla salita precedente e ora cammina. Arrivo in cima, curvo a destra e in una manciata di secondi mi trovo a passare tra il Quirinale e la Corte Costituzionale.
Fa un caldo tremendo! E’ il 31 di dicembre e a Roma sembra aprile! Potrei giurare di aver visto anche un paio di rondini, ma forse si trattava di allucinazioni da eccessiva fatica.
Passata piazza del Quirinale ci si butta a sinistra su via Nazionale, poi di nuovo a destra fino a viale Cavour. Qui si respira un po’ grazie a un’altra breve discesa.
Non sento più le caviglie, o meglio le mie caviglie stanno urlando così forte dal dolore che il mio cervello preferisce non sentirle.
Arrivo su via dei Fori Imperiali, giro a sinistra, alzo lo sguardo e lo vedo! Il Colosseo! Per molti turisti è una visione che mozza il fiato per la sua maestosità. Per me vederlo in questo momento significa soltanto due cose: che sono ancora vivo e che mancano meno di due kilometri al traguardo.
Ancora un’altra salita girando attorno al Colosseo (come mi manca la pianura in queste situazioni), mentre i turisti ci incitano e i bambini allungano la mano per darci il cinque e finalmente inizia l’ultimo chilometro.
Spingo come un matto e sorrido pensando che ormai l’agonia delle mie caviglie sta per finire! Guardo il cronometro e mi accorgo di essere perfettamente in media coi tempi delle ultime settimane, nonostante quei due dannati lenti e tremendi kilometri di salita.
Mancano trecento metri. Sollevo le ginocchia e porto i talloni verso l’alto: dentro di me mi immagino correre con la leggiadria di un kenyota, mentre è molto probabile che chi mi osserva veda soltanto la triste immagine di un runner totalmente disarticolato con il viso trasformato in una maschera di stanchezza e sofferenza.
Le caviglie continuano a chiedermi pietà! Ma ormai voglio spingere fino alla fine, costi quel che costi, anche se non ho più un filo di fiato nei polmoni, fino a tagliare il traguardo, dolorante e senza quasi riuscire a respirare, in 48 minuti e 4 secondi.
Prendo una bottiglietta d’acqua, entro nello stadio e crollo sull’erba respirando a pieni polmoni.
Un sorso d’acqua, un sorso di vita bevuto con gli occhi.
Mentre sono lì ancora un po’ boccheggiante a caccia di ossigeno mi guardo attorno. Molti runners sono già arrivati al traguardo, altri stanno ancora affrontando gli ultimi km della gara.
C’è ancora un sacco di gente che gira nello stadio: bambini corrono sulla pista emulando i papà e le mamme che hanno preso parte alla gara; mogli, mariti, compagni e amici, con macchine fotografiche, aspettano i rispettivi per immortalarli negli ultimi metri.
Vedo runners stanchi e sorridenti scherzare tra loro mentre confrontano i tempi fatti o parlano del percorso. E mi rendo conto che Nike ha centrato il proprio obiettivo e organizzato una bella festa di corsa e di sport che andrà avanti ancora a lungo.
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