La corsa cura i problemi di cuore

Ironia della sorte, casualità o oscuro disegno divino, chi può dirlo? Di fatto però, nella stessa giornata, ci sono arrivati due contributi che parlano – in modo diverso e con esperienze diverse – di come la corsa curi i problemi di cuore. E chi siamo noi per non pubblicarli? Siamo “Lovers” mica a caso, noi. Ecco quindi le storie di Alessandra ed Elena che ci raccontano le loro esperienze, diversissime, accomunate dal tema o che lo usano come pretesto (e, ovviamente, se vuoi contribuire con i tuoi racconti, puoi scrivere qui). Chiaramente lo spazio in fondo alla pagina – quello con scritto “commenti” – è per dire la tua, condividere la tua storia. Buona lettura!

Alessandra e il cuore che sorride

Fra un mese compirò 46 anni. La prima volta che ho provato ha correre su un treadmill era il gennaio 2008.  Ho resistito 3 minuti e mezzo. Sono scesa ansimando dicendomi “questo non fa per me”. Il 7 di aprile 2014 sono scesa da un treno con gli occhi pieni di lacrime e il cuore spezzato (uomini: inferno e paradiso), sono arrivata a casa, ho indossato le mie scarpe da ginnastica e i miei auricolari e sono partita. Senza meta, senza fiato, senza futuro, senza niente.

Mi sono fermata 7 km dopo. Ma in realtà non mi sono più fermata. Corro almeno tre volte la settimana, il mio record è di 13 km. Tutti mi chiedono chi me lo fa fare e io rispondo: “provate poi capirete”. Mentre corro ascolto solo il mio corpo, il cervello è anestetizzato. Anche quando credo di non farcela più riesco sempre ad arrivare in fondo, a superare ogni giorno il mio record precedente. Anche di un solo minuto, ma ogni giorno è sempre meglio.

Il cuore è sempre spezzato ma, quando corro, sorrido sempre.

Elena e la telefonata

È cominciato tutto con una telefonata. Proprio così. Non ci sono state motivazioni profonde sul senso dell’esistenza, folgorazioni sulla via di Damasco, improvvisi innamoramenti per le albe sul mare o per il profumo della pineta d’inverno alle cinque del mattino. C’è stata una telefonata, invece.
Una telefonata all’una e mezza di una notte fredda di metà Gennaio.
C’è  stata una proposta. Indecente, sì. Parecchio indecente. Avete presente quelle proposte in cui non credete davvero? Quelle proposte che una parte di voi aspetta da mesi e mesi, e l’altra parte di voi da mesi e mesi ha già classificato come impossibili, da ricevere e da accettare? Ecco, penso tu abbia capito la natura di quella proposta.

Io ero quella delle autoreggenti di pizzo, sempre. Quella del caschetto nero con la frangetta sempre perfetta e degli occhiali da vista sempre sul naso. Quella che le cose vanno come dico io, con quell’aria da professoressa rompipalle. Quella delle scale a piedi mai sennò sudo e mi viene il fiatone al terzo gradino. Quella delle scarpe abbinate alla borsa, sempre, e della macchina pure per andare dall’arabo sotto casa a comprare l’insalata. Ero quella di Classique di Jean Paul Gaultiere e nient’altro è sufficientemente intenso. Quella dei ragionamenti razionali. Quella dei chili in più perché tanto il mio corpo serve solo a portare in giro il mio cervello, e pure il piacere fisico passa da lì.

Poi è arrivata quella telefonata improvvisa. Così, nel bel mezzo dell’inverno, nel bel mezzo della sessione d’esami all’università, nel bel mezzo di un periodo che i chili in più erano tanti perché senza carboidrati come faccio a studiare bene, un periodo lavoro-università-casa-lavoro-casa-università.
Alla fine, le cose che veramente ti cambiano arrivano sempre quando non te le aspetti, quando sei talmente aggrappata alle tue impalcature di cemento armato e acciaio inossidabile che non te le immagini nemmeno.

«Ma l’hai accettata quella proposta indecente?»

Ho rifiutato la proposta. Insomma: avevo una relazione, e poi l’etica, la morale, i rimorsi, i principii di vita, le promesse; e mica potevo accettare che il mio corpo ridotto al silenzio, che le mie pulsioni animalesche, che i miei sconvolgimenti epiteliali avessero la meglio sui miei sillogismi. Manco avessi avuto diciott’anni.
Ho rifiutato la proposta.
E me ne sono pentita nello stesso identico momento.

Il giorno dopo – notte insonne e giornata di lavoro praticamente inesistente – mi sono infilata una vecchia tuta pescata da chissà quale armadio e un paio di scarpe da ginnastica di mia sorella.
Ho corso.
Correre, io?
Sì, io.

Credo pochi minuti, sette o otto a voler essere proprio generosi. Dolore e fiatone, l’aria gelida che bruciava nei polmoni, la testa che pulsava, la pelle, le dita, i capelli, gli occhi, il cuore, tutto sconvolto, impazzito, impazzito come me, come il vento che mi sbatteva in faccia il mare, come il mio cervello che non capiva più niente, più niente.

Non so perché. Non so quale sia stato il collegamento tra quella telefonata e l’aver cominciato a correre, non lo so e non lo saprò mai. Forse, solo il bisogno di sfogarmi, di fuggire metaforicamente da una relazione in cui cominciava a mancarmi l’ossigeno. O forse la voglia di sentirmi di nuovo un’adolescente libera dai rimorsi e dalla terribile farragine dei rovi dei molteplici vorrei ma non posso che mi ero costruita per illudermi di essere “giusta”. Qualcosa che aveva molto in comune con la fuga, senza dubbio. Comunque, anche se non mi spiego quale sia, so che il nesso c’è stato, so che è stata una scintilla, una scossa elettrica, un corto circuito; so che è per quello che ho cominciato a correre e, nonostante tutto il dolore, tutti i rimorsi, tutta l’inquietudine che ne è derivata, io ringrazio quella telefonata. E ringrazio la corsa.

Tutti i giorni.

Quando esco la mattina presto, magliette tecniche e scarpe fluo, e corro verso il mare, quando i polmoni si riempiono di aria e non fanno male, quando il mio corpo mi implora di continuare, di correre cento metri di più, un pochino più veloce di prima, e se ne frega del cervello che gli dice che è impossibile, che non posso continuare, che ho avuto un tumore solo poco tempo fa, che ho fatto un trapianto di midollo e sono stata pigra e sedentaria per tutta la vita, che non ce la farò, non ce la farò, non ce la farò.
La ringrazio quando salgo sulla bilancia, la mattina, e faccio il conto dei chili persi, e sono tantissimi.
La ringrazio ogni volta che qualcuno mi dice che sono bella, che sono in forma, che il mio viso non è mai stato così luminoso e la mia camminata così disinvolta, quando vado in giro e per strada la gente si ferma a guardarmi.
Tutti i giorni, quando sento il mio corpo appartenermi davvero, coincidere con i miei pensieri, e quando sento la sicurezza e la felicità che mi colmano, infinite.

La corsa mi ha cambiato la vita. Facile cadere nel retorico, ma non posso evitarlo. Come spiegare, altrimenti, cosa significa per me?

Adesso, io sono quella che corre. Quella che esce struccata e in abbigliamento tecnico, e si sente bellissima. Sono quella dei capelli scalati, che volano poetici nel vento del lungomare. Sono quella delle mattine di primavera e dei tramonti infuocati. Sono quella dei profumi freschi e leggeri, quella che vado a fare una passeggiata, quella delle lenti a contatto per correre pure di notte, quando il mare si fa scuro e paterno, e pure quella dello spinning e del trekking e delle scale a piedi, sempre, quella dei jeans e scarpe da ginnastica, quella di tutte le cose che mai avrei pensato di poter fare. Quella che il proprio corpo lo ama e non lo avverte più come un peso con il quale, suo malgrado, convivere.
Quella che ce la posso fare, ce la devo fare, ce la faccio. Qualunque cosa.
Quella che è nata per la terza volta. Una per quando sono nata, una per il trapianto e una per la corsa.
Come in un canzoniere medievale, io divido la mia vita. Prima e dopo la corsa.
Una nuova vita.
Un nuovo tatuaggio, tutto colorato, dietro la spalla. Nuovi vestiti, nuovi quadri in casa, nuove persone intorno a me. Un nuovo modo di affrontare la vita, con più leggerezza, con meno impalcature. Una nuova me.
Mi è andato il tilt il cervello, il mio cervello affidabile e serio.
Ho fatto quel primo passo sul lungomare, quel primo passo di corsa, e lui ha dichiarato la sua resa. Non ha capito più niente, e a me è toccato correre dietro questo mio corpo impazzito, finalmente libero, finalmente sottratto alla tirannide, finalmente sano.
Finalmente viva, viva come, pur tra i piccoli infortuni, le piccole sconfitte e l’enorme fatica, non ti sentirai mai se non mentre corri.

 

(credits immagine principale: ©iStockphoto.com/robstyle)

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