una giornata dolo-MITICA!

Risuona ancora nella mia testa l’Estasi dell’Oro di Ennio Morricone, e in un attimo sono catapultata indietro nel tempo, a qualche giorno fa. Lo sento riecheggiare lungo tutto Corso Italia, a Cortina d’Ampezzo, mentre 800 runners, in reverenziale silenzio, aspettano con ansia il count-down della 3^ edizione del Cortina Trail. C’è chi prega, chi si abbraccia, chi con un semplice sguardo si dice “oggi non si molla di un centimetro”. Ognuno con la propria storia, la propria motivazione, che li ha portati uno ad uno davanti a quella linea rossa.

Tra questi 800 atleti c’è anche una ragazza che, tra le ultime file, si sistema nervosamente le scarpe. Questa ragazza ha un sogno: diventare un’ultra trailer. La distanza da percorrere quest’oggi è ben più lunga di quella che ha mai percorso finora, e in gare come questa, si sa che gli imprevisti sono dietro l’angolo. Ma c’è una cosa che fa la differenza in questa disciplina: la determinazione. E oggi, questa determinazione, la si respira nell’aria, la si percepisce nella pelle e la si intravede negli occhi lucidi di questi ragazzi.

La musica si interrompe, il conto alla rovescia viene quasi sussurrato, un ultimo respiro e via, come un fiume che invade il viale principale del paese, l’ondata di runners saluta una Cortina appena svegliata, per affrontare un viaggio lungo 47 km, nel cuore delle Dolomiti.

I primi km scorrono veloci, tra una chiacchiera e uno sguardo volto al cielo. La prima fatica di giornata viene affrontata a passo costante, respirando a pieni polmoni il fresco mattutino dei boschi dolomitici. In fin dei conti, la giornata sarà lunga, e i muscoli non sono ancora del tutto consci di cosa li aspetterà di lì a poco.

La nostra ragazza sa che deve essere prudente se vuole portare a casa il suo sogno. Passo dopo passo scollina, le sembra incredibile aver guadagnato quota in così pochi km. Viene superata da qualche runner intento ad inseguire di corsa il tempo. Ma lei no. Oggi vuole assaporare ogni attimo, stupirsi di fronte a cotanta meraviglia, prostrarsi davanti a LEI, la signora MONTAGNA.

Correndo in discesa nel bosco, le sembra quasi di volare. Le gambe si stanno lentamente risvegliando dal torpore della notte e la danza può finalmente iniziare. Quanto vorrebbe elevarsi e vedere dall’alto la serpentina di puntini colorati che sfrecciano veloci nel cuore della natura. Poco male fanno le vesciche che sono già giunte a bussare alla porta. Pit-stop per incerottarsi i piedi e giù di nuovo, come se non ci fosse un domani, come se sentisse di essere “nel posto giusto, al momento giusto”. Dopo anni. Finalmente.

Finito il bosco, è costretta a deglutire. La Val Travenanzes si mostra davanti a sé, è uno spettacolo difficile da descrivere. In questo frangente Madre Natura ti sbatte davanti al volto tutta la sua immensità, e non puoi far altro che inginocchiarti chiedendo umilmente: “Posso passare?”.

Cascate, traversi di neve battuti dall’organizzazione (e dalle centinaia di atleti passati prima), rigagnoli di acqua cristallina che fuoriescono da ogni angolo di roccia, una leggera brezza gelata che fa lacrimare gli occhi (sì, certo: la brezza!!), il tutto contornato dalla maestosità delle Tofane. Se c’è un paradiso, deve proprio somigliare molto a questa valle incontaminata.

In lontananza si intravede un gruppo di persone ferme. Molti seduti, alcuni in piedi: sicuramente sarà un ristoro. Mano a mano che ci si avvicina, lo scenario cambia. C’è un fiume da attraversare (e non ci sono ponti). “Ottimo” pensa la nostra ragazza. Questo metterà a dura prova i suoi piedi, già doloranti dalle vesciche. Invece sembra che il freddo glaciale dell’acqua avrà un effetto anestetizzante e il dolore percepito diminuirà sensibilmente. Dopo aver guadato un fiume però, si ha il diritto di sentirsi un po’ immortali, e questo fa sì che la discesa e la salita successive, saranno affrontate con enorme carattere, iniziando quello che sarà un lento e inesorabile recupero di “relitti”, partiti troppo forte e che ora, dopo quasi 30 km, iniziano a dare i primi segnali di cedimento.

Il tratto più drammatico si chiama “Forcella Giau”, una rampa di un km circa, con pendenze impegnative ma normalmente fattibili, però dopo tanti km sembra un muro. La vedi da lontano, la bestia. E saltano all’occhio i puntini colorati, più o meno fermi, a imprecare, pregare che finisca presto, o più semplicemente, intenti a tirare il fiato. La nostra ragazza è stata avvistata, mentre risale lungo la forcella, a passo lento ma costante, deciso. Negli occhi le si leggevano solo tre parole “ARRIVARE-IN-CIMA”. Ormai il motore è lanciato, la quinta marcia innestata, non ci sono più scuse o paure dietro cui nascondersi. Questo è il momento in cui bisogna OSARE. E si va, si recuperano posizioni, laddove gli altri tentennano, lei ha il fuoco nelle gambe e l’emozione nel cuore.

L’emozione di giungere in cima alla forcella, come ad essere sul tetto del mondo, e lanciare un urlo liberatorio, nonostante il respiro affannoso.

L’ultima fatica di giornata è Forcella Ambrizzola, la cui lunghezza e pendenza non ha nulla a che vedere con le altre, ma che a quel punto del percorso, fa male. Alle gambe e all’animo. Dopo aver scollinato le forze della nostra ragazza sembrano venir meno ma una telefonata agli amici che aspettano giù in paese le dà la forza per lanciarsi nel ripido, fangoso bosco da attraversare prima di arrivare a Cortina.

In quei momenti non pensi più al dolore alle gambe, alle vesciche ai piedi, alle ginocchia che sembrano cedere da un momento all’altro o alle caviglie che ti hanno risparmiato qualche brutta caduta. C’è solo quel campanile che si intravede ogni tanto tra le fronde, sempre troppo lontano, sempre troppo basso rispetto alla tua prospettiva. I metri sembrano chilometri, ma la senti l’aria diversa, meno pungente. E questo, seppur piccolo, è un segnale e nella tua testa una voce ti sussurra che il tuo sogno si sta avverando. Il bosco diventa meno ripido, intravedi in lontananza una strada asfaltata e, senza rendertene conto, aumenti la frequenza del tuo passo. Con essa aumenta anche quella del fiato, non tanto per la fatica, dopo oltre 10 ore non la puoi neanche più definire tale, bensì per l’emozione.

Di fronte a te non più alberi, non più fango, solo un interminabile chilometro di asfalto, ti separa da quell’inconfondibile campanile.

“Non mollare” ormai è il mantra di giornata. Il fisico è assuefatto, intorpidito da quest’onda anomala di emozione.

Giri l’angolo e, come se ti fossi allontanato una mezzora per una scampagnata, Corso Italia è lì, come l’hai lasciato 10 ore prima, gremito di gente che ti guarda, sorride e applaude. E lì puoi solamente mollare le briglie e lasciare uscire lo tsunami che hai tenuto dentro per mesi, quel gran calderone di paure, insicurezze, pianti e allenamenti massacranti. E le butti fuori tutte, una ad una, come se non appartenessero più a te. Le lasci indietro e tu fai un passo avanti, oltre quella linea rossa, oltre il tuo limite che hai appena superato.

Questa ragazza ce l’ha fatta.
47 km, 2.680 metri di dislivello positivo.
Questa ragazza sono io. E ora sono una Ultratrailer.

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