Se pensi di essere troppo lento o non all’altezza, sappi che non sei solo. L’ansia da prestazione è la nostra maratona silenziosa, ma c’è un modo per vincerla.
- Quella sensazione di non meritarti il titolo di “runner” è la Sindrome dell’impostore applicata al tapis roulant o al sentiero, ed è diffusissima.
- Gran parte del problema risiede nella trappola del confronto, amplificata da quelle bacheche social dove tutti sembrano volare a ritmi impossibili.
- Il primo passo per superarla è un cambio di prospettiva: corri per l’atto, per il processo, non per l’unica statistica finale sul tuo orologio GPS.
- Cerca la tua vera “tribù”: un gruppo di corsa che non ti giudica dal passo, ma ti supporta e ti aspetta al traguardo (o al bar).
- Il successo vero non è un personal best occasionale, ma la costanza: è il successo di esserci, di aver provato e riprovato.
- Non tenere l’insicurezza per te: parlare apertamente di questa paura è il modo più rapido ed efficace per privarla di ogni potere.
La paura di “non essere abbastanza” (per la gara, per il gruppo, per te stesso) e come superarla
Se mi facessero correre i chilometri che ho speso a pensare di non essere abbastanza, avrei già finito un paio di ultratrail. E non scherzo.
Tu che leggi, probabilmente hai un paio di scarpe da running che (forse) non usi abbastanza, un’iscrizione a una gara che ti sembra sempre troppo ambiziosa e un gruppo di amici che, quando parli di corsa, sembra citare solo i tempi al chilometro. E lì scatta l’allarme.
È il momento in cui, mentre guardi gli altri che macinano ripetute come fossero noccioline, una vocina ti sussurra all’orecchio: “Sono troppo lento per loro”. Oppure, mentre scorri la lista partenti della tua prossima mezza, diventa più cattiva: “Non sono pronto per la gara, farò una figura pietosa”. O, peggio ancora, la domanda finale, la più subdola: “Sono davvero un runner o sto solo fingendo?”.
Benvenuto nel club più affollato della corsa amatoriale. Non si tratta di una patologia da trattare con la camomilla, ma di una forma specifica di sindrome dell’impostore, quella che ti fa credere di aver truffato tutti per ottenere il tuo posto nel mondo della corsa. E fidati, è molto più comune di quanto tu possa pensare.
La trappola del confronto: come i social hanno alimentato la nostra ansia da prestazione
L’ansia di inadeguatezza ha origini antiche come l’uomo, ma nell’era moderna ha trovato un fertilizzante potentissimo: le piattaforme social di tracciamento e condivisione. Chiamalo Strava (se dobbiamo usare un nome), chiamalo quel che vuoi, ma il risultato non cambia.
Un tempo, il tuo personal best era una cosa tua, o al massimo di un paio di amici in carne e ossa. Oggi è pubblico, visibile, e messo in confronto diretto con quello di migliaia di sconosciuti che, per carità, sono fortissimi, ma la cui vita non vedi: i loro infortuni, le loro mattinate pigre, i loro allenamenti saltati. Tu vedi solo il “K.O.M. su quel segmento” e pensi che quello sia lo standard.
La corsa non è un videogioco in cui il livello si sblocca solo a una certa velocità. Ridurre il gesto atletico a una semplice statistica è la cosa più anti-sportiva e triste che tu possa fare. In questo ambiente filtrato e pompato, l’ansia non solo sopravvive, ma prospera, nutrendosi dell’illusione che l’obiettivo sia unicamente battere qualcun altro, o un algoritmo.
Il punto è: la corsa non ti chiede di essere Usain Bolt o Eliud Kipchoge. Ti chiede solo di mettere un piede davanti all’altro. Ripetutamente.
4 strategie per liberarti dalla paura di non essere abbastanza
Se il problema è una trappola mentale, la soluzione non può che passare da un reset cerebrale. Non stiamo parlando di miracoli, ma di strategie pratiche per riappropriarti della gioia primordiale della corsa, prima che qualcuno te la rubasse con un cronometro.
1. Sposta il focus: corri per il processo, non per il risultato
Prova a pensarci: la gara dura, a seconda della distanza, da 30 minuti a diverse ore. L’allenamento settimanale, il processo, i chilometri spesi a faticare, durano mesi. Se concentri tutta la tua autostima su quelle due ore in cui devi fare quel tempo, stai svalutando il 99% della fatica che hai fatto.
Sposta il tuo obiettivo dalla statistica (il risultato) alla sensazione (il processo). Impara ad apprezzare l’aria fresca nei polmoni, il suono ritmico dei tuoi piedi sull’asfalto, la soddisfazione di aver concluso i 12 chilometri previsti, indipendentemente dalla media. La gioia del fare è la migliore arma contro la paura di fallire. Corri perché ti piace, non per dimostrare qualcosa.
2. Trova la tua “tribù”: il gruppo giusto è quello che ti aspetta
A volte ci si aggrega al gruppo sbagliato per ambizione. Si cerca la compagnia che corre veloce per essere veloci. Ma se stare con loro ti costa ansia, ti fa sentire inadeguato e ti fa spingere oltre il tuo limite in modo non salutare, non è un gruppo, è un’élite che ti sta lentamente sabotando.
Il gruppo di corsa ideale non è quello più veloce, ma quello più solidale. Quello che ti aspetta quando sei in crisi, che ti incoraggia quando ti alleni per la prima volta su un lungo, che accetta il tuo passo senza giudicare. La corsa è un atto individuale, ma la comunità è il paracolpi contro le insicurezze. Se la tua compagnia non ti fa sentire bene, non è la tua tribù. Cercane una dove tu possa essere semplicemente te stesso.
3. Ridefinisci il successo: la costanza è il tuo vero PB
Tutti idolatrano il personal best, la performance massima. Eppure, il vero successo, quello che costruisce un runner nel tempo, è la costanza. Sei uscito tre volte questa settimana, nonostante la pioggia, il lavoro e la stanchezza? Quello è un successo molto più grande di un ritmo insostenibile tenuto per 5 chilometri.
Il PB non è un tempo. Il PB è esserci. Riconosci il merito all’impegno continuativo. Essere costanti è la forma di autodisciplina più alta che esista. Quando la paura ti assale, ricorda il totale dei chilometri che hai fatto in un anno. Quella cifra, non il tuo tempo sulla 10k, è la prova inconfutabile che sei un runner.
4. Parla: condividere la tua insicurezza la depotenzia
L’ansia è una creatura notturna: vive bene nel buio e nel silenzio. Appena le dai un nome, la esponi alla luce e la condividi, perde il 90% del suo potere. Prova a dire a un compagno di corsa (magari quello che ritieni il più forte, per un sottile piacere autoironico): “Sai, a volte penso di non essere abbastanza veloce per meritare di correre.”
Scoprirai un paio di cose. Primo, che probabilmente quel compagno ha provato la stessa cosa. Secondo, che il solo atto di verbalizzare il timore lo fa sembrare ridicolo. L’insicurezza condivisa non è debolezza, è un atto di coraggio e la prima crepa nel muro della sindrome dell’impostore.
Sei un runner perché corri. Punto.
Smettiamola con questa storia delle etichette. Nessun comitato olimpico o associazione di corsa amatoriale si riunisce per decidere chi può fregiarsi del titolo di “runner” e chi no. Non c’è un tempo minimo, un numero minimo di scarpe o un budget minimo di gel energetici da rispettare.
Se ti allacci le scarpe, esci dalla porta e corri (o cammini veloce, o corri piano, o cammini e corri, non importa), tu sei un runner. Il tuo atto ti definisce, non la tua velocità.
La paura di non essere all’altezza è solo un altro chilometro difficile. Accettala, dagli una pacca sulla spalla ironica, e poi lasciala indietro. Tu hai già vinto la parte più difficile: quella di esserci.


