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Gli smartwatch forniscono dati e notifiche utili, ma possono creare una dipendenza e ansia per alcuni.
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L’uso degli smartwatch dipende da come vengono utilizzati e dalla sensibilità individuale.
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L’equilibrio nell’uso degli smartwatch è importante per evitare comportamenti nocivi e mantenere una prospettiva sana.
Ho appena finito l’allenamento e mi sono seduto. È il momento perfetto perché il mio orologio mi ricordi di alzarmi per muovermi un po’. Ho appena terminato la mia seconda meditazione quotidiana e lui mi notifica che è il momento perfetto per fare qualche esercizio di mindfulness. La reazione già naturale è “Ma sei scemo? Mi prendi in giro? L’ho appena fatto”.
È probabile che anche tu ne rida, riuscendo comunque ad apprezzare le altre utili funzioni del tuo smartwatch. Ma non tutti riescono ad averne un rapporto distaccato o ironico.
La differenza fra smartwatch e sportwatch
Iniziamo con lo specificare la differenza fra smartwatch e sportwatch. I primi sono senza dubbio i più diffusi. Basta guardarsi in giro in fila al supermercato o a passeggio per strada: dai modelli più economici a quelli più sofisticati, tantissime persone li indossano. Così tante che ormai ti stupisci se vedi qualcuno che non li indossa e che ha al polso un normale orologio.
Gli smartwatch – come suggerisce la parola stessa – sono strumenti più intelligenti di un normale orologio, e lo sono perché non si limitano a dirti l’ora e la data ma registrano e forniscono molti dati fisici che riguardano il tuo livello di attività quotidiana, il tuo battito cardiaco, quanto hai riposato.
Gli sportwatch hanno tutte queste funzioni e in più molte altre, utili a chi si allena con l’obiettivo di correre una gara o di curare determinati aspetti della preparazione fisica.
Oggi non parleremo di questi ultimi.
Che tipo di rapporto se ne può avere
Personalmente ho un rapporto ironico con molte cose che mi accadono. In altre parole, cerco di sorridere il più possibile della vita, riservando la serietà alle cose davvero importanti. Come dicevo prima, le notifiche che ricevo dal mio orologio (nel caso specifico un Apple Watch, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altro modello di sport/smartwatch), escluse quelle di messaggi o mail, capitano spesso nei momenti meno opportuni. Dovrei quindi prendermela con questo oggetto che non ha alcuna colpa se non quella di essere stato programmato in modo da non prevedere certe condizioni prevedibilissime in cui potrebbe tacere? Non è colpa sua, semmai è dei programmatori. Quindi ne rido, e penso che queste macchine che temiamo che un giorno ci governeranno, per ora si dimostrano mediamente sceme.
Il loro scopo è evidentemente un altro ed è quello di renderci più consapevoli di quanto ci muoviamo o di quanto riposiamo, per citare solo due delle funzioni più semplici che hanno.
Credo insomma che sia più il bene che hanno fatto del male che hanno – indirettamente e involontariamente – causato. Le intenzioni erano e sono ottime, anche perché una cosa la sanno fare sicuramente bene, ed è contare: le calorie, i passi, i minuti, la velocità, i metri. Cose che noi non sappiamo contare affatto bene perché ci basiamo sulla percezione, mentre loro sono radicati nella realtà. Diciamo che non sono influenzati nelle loro letture perché loro contano, non percepiscono.
Eppure c’è anche chi ha intravisto nel loro utilizzo una possibile distorsione del rapporto che ognuno ha con il proprio corpo. Un articolo su Psychology Today a firma di Gregg McBride pone l’accento proprio sul come si possa instaurare una relazione perversa e tossica con questi dispositivi, al punto da rimanerne schiavi.
È giusto specificare che lo stesso McBride – che dichiara di aver sempre combattuto con problemi di peso e con un rapporto problematico con il cibo – circoscrive il fenomeno a chi ha pregressi o soffre dal punto di vista psicologico. Per tutti gli altri, dice, l’ausilio che questi strumenti offrono può essere impagabile.
Dipende da come li si usa. E da chi li usa
Quello che osserva è riassumibile così: gli smartwatch (lui stesso non parla di sportwatch) possono essere più nocivi che altro proprio per le persone che ne avrebbero più bisogno. In altre parole, è come se l’indossarli rendesse queste persone ipersensibili ad argomenti verso i quali sono già oltremodo sensibili, tipo il cibo o la necessità di fare movimento.
L’essere insomma costantemente sollecitati e notificati a muoversi, mangiare meno, dormire di più e meglio li porrebbe in una costante condizione di ansia per la difficoltà di essere all’altezza di standard definiti da un oggetto che sembra sapere tutto di te, e pure meglio di te stesso.
Fino a indurli a comportamenti altrettanto nocivi di quelli che vorrebbe modificare o sradicare: quando si instaura in chi lo usa una gara perversa a soddisfare le continue richieste dello smartwatch, si possono generare comportamenti persino peggiori di quelli che dovrebbero correggere, tipo mangiare meno del necessario o muoversi più di quanto sia consigliabile.
Un rapporto più equilibrato
Questo è uno dei casi in cui bisognerebbe dimenticarsi di essere persone dotate di un naturale equilibrio interiore, ammesso che lo si abbia. Perché è facile prevedere che un discorso del genere possa essere accolto con un’alzata di spalle e un “Ma cosa vuoi che sia, non ci badare, non darci peso” da chi riesce a dare la giusta proporzione alle cose. Diverso è il discorso per chi ha una sensibilità molto sviluppata a tematiche che lo mettono in difficoltà, svelando difficoltà personali nella gestione del cibo o del movimento.
L’osservazione di McBride non è rivolta a chiunque e non condanna né assolve gli smartwatch: ricorda solo che le sensibilità umane sono diverse e molteplici, e quello che può essere un valido aiutante per alcuni può essere un pessimo padrone per altri.
E se pensi che sia un discorso molto circoscritto, rifletti un attimo su quanto e come usi il cellulare: pensi di esserne dipendente, di averne un rapporto distaccato, di poterne fare a meno quando vuoi? Oppure puoi riconoscere una dipendenza anche in te, pur se con una forma diversa?
(via Psychology Today)