C’è un treno che mi aspetta sabato mattina. A dir la verità, se non arrivo in orario quello mica mi aspetta sul serio. Una volta che il macchinista sente il fischio conviene farsi trovare al posto giusto, d’altronde il treno non è altro che un drago mangiabinari, non l’hanno mica inventato per aspettare la gente. Semmai tocca a te imparare l’attesa.
Parto presto, a un orario buono per fornai e distributori di giornali. Ma tanto ci sono abituato perché da quando mi è venuta quest’idea di preparare una maratona ho dovuto fare amicizia con sveglie disumane. Un po’ d’acqua, il caffè e qualche fetta biscottata piena di marmellata, mentre fuori c’è un buio da due di notte o quattro del mattino, tanto il colore è quello, cambia poco.
Devo ricordarmi di prendere il sacchetto dell’umido e gli occhiali da sole prima di uscire. E poi la valigia. Necessaria. Quella si fa il giorno prima, tanta è la paura di stuzzicare amnesie mattutine che complicherebbero il viaggio. È già accanto alla porta, ancora col nastrino rosso sul manico, dettaglio reso necessario da viaggi in aereo in cui si temeva il famigerato scambio del bagaglio sul nastro trasportatore.
Tanto starò lì solo due giorni, mi sono detto. Eppure ho fatto un po’ di fatica nel chiuderla. Non mi ci sono seduto sopra, ma posso sentire con facilità la sofferenza delle cerniere. Credo di averci sistemato il necessario. La sera prima avevo sistemato tutto sul letto, quasi a voler mappare visivamente le cose di cui avevo bisogno nella mia due giorni romana, convinto che quella buona strategia organizzativa non avrebbe comunque allontanato la sensazione di dimenticare qualcosa. È una serpe, quella sensazione, non si fa catturare mai, ti perseguita.
Insomma, adesso che il treno ha mollato gli ormeggi e sprinta verso la stazione d’arrivo, sono qua al mio posto che penso di aver dimenticato qualcosa. Per correre una maratona dovrebbe esserci più o meno tutto: la tenuta da gara della mia squadra, le scarpe, bustine assortite di gel e sali minerali, un ricambio da indossare alla fine dei giochi, un paio di barrette energetiche per quando si accenderà la riserva nei pressi del Ponte Milvio o giù di lì, l’abbigliamento da atleta in borghese da indossare pre e post maratona, il beauty case, il cronometro con alimentatore in allegato. Cos’altro? Il pacco gara lo prendo appena arrivo sul posto, le prenotazioni sono tutte nello smartphone e il libro che ho scelto per il viaggio l’ho riposto sul tavolino pieghevole che ho davanti. E allora? Cos’è questa sensazione che non se ne va? Cos’ho dimenticato?
La valigia è sotto al mio sedile, quindi vinco un momento passeggero di pigrizia e decido di controllare. Le cerniere si liberano in un sospiro di sollievo. Noto subito che il mio tetris di vestiti e cianfrusaglie ha retto per quel pezzo di viaggio, provo a indagare nei pertugi, scuoto le scatole dei sali minerali come farei con delle maracas. Sembra tutto a posto.
Richiudo e torno al mio libro.
Una notifica sul telefono mi ricorda che la partenza della gara è fissata alle otto del mattino del giorno dopo. C’è qualcosa che non mi torna e ha a che fare con quella sensazione di prima: un pezzo mancante nella valigia, non l’ho lasciato a casa e non credo di poterlo trovare a Roma. Forse è nelle tasche, guardo bene. Intanto sento i treni fischiare, bisogna scendere, stazione Termini.
Il primo passo sul suolo romano mi suggerisce che c’è un’altra valigia che sto trascinando. No, non è quella col nastro rosso che tengo stretta nella mano destra. È un’altra valigia, l’ho iniziata a riempire nel giorno in cui, al solo pensiero della maratona di Roma, il mio “perché?” si è trasformato in un “perché no?”. Credo che sia stata quella la mia vera partenza, non certo l’orario e il luogo indicato dagli organizzatori.
Per questa seconda valigia un maratoneta deve fare davvero tanto spazio. E deve trovarne una che sia resistente, non bisogna risparmiare, altrimenti se non lo è poi succede che inizi a caricare e ci vuole un attimo a vedere le cose sparpagliarsi per terra.
Dentro bisogna sistemare prima un bel perché alla base, poi uno a uno tutti quegli allenamenti che ti hanno tenuto compagnia negli ultimi mesi, con un posto d’onore per le volte in cui non c’era tutta questa voglia di allenarsi eppure si era lì, applicati sulla strada, a fare i compiti previsti. C’è uno spazio anche per le piccole o grandi rinunce, per le serate in cui si voleva ma non si poteva esagerare perché il giorno dopo bisognava correre. Una tasca interna, poi, se la prendono la pioggia, il vento e il freddo che alcune volte si divertivano a darsi appuntamento tutti insieme e a spingerti verso il caldo riposo domestico, ma tu eri in scarpe da corsa, testardo come un sognatore, a fendere il maltempo con la tua falcata. Poi ci sono i sorrisi, gli sforzi dell’immaginazione, i crampi, l’ostinazione, le endorfine, il corpo e la mente che fanno amicizia. Tutto un percorso. Basta solo spingere un po’, c’è spazio.
Finisce che al giorno della maratona si arriva con due valigie: una si prepara un paio di sere prima, l’altra è da mesi che si sta riempiendo di roba e ti spiega come la partenza della gara sia solo un pezzo. Quello che chiude i conti con un viaggio, dove quei quarantadue chilometri e centonovantacinque metri non sono nient’altro che l’ultimo frammento, l’ultimo spazio che c’è da riempire in valigia.
Andrea Martina