La corsa, da sport democratico, si trasforma in un privilegio basato sulla qualità e inclusività delle città, rischiando alla fine di essere meno accessibile di quanto si pensi.
- Il mito: la corsa è vista come uno sport “democratico”, accessibile a tutti.
- La realtà: l’esperienza di corsa dipende drasticamente dalla qualità delle infrastrutture urbane.
- Il contrasto: correre in un parco non è come correre schivando traffico e marciapiedi rotti.
- Il quadro generale: una città sicura per i runner è sicura per tutti (anziani, bambini, disabili).
- La soluzione: città come Copenaghen o Oslo dimostrano che un’urbanistica inclusiva è possibile.
- L’invito all’azione: chiedere spazi pubblici migliori non è un capriccio, ma un atto di cittadinanza.
Non avevo mai notato quanto fossero rotti i marciapiedi della mia città
Poi un giorno ci ho portato mio figlio in passeggino. Un’altra volta sono inciampato in una buca mai sistemata, facendomi abbastanza male (molto).
Pensa alla tua ultima corsa. O a quella di stamattina. Com’è andata?
Magari sei uscito nel silenzio quasi irreale dell’alba, hai attraversato un parco con l’erba ancora umida di rugiada e l’unico rumore era quello delle tue scarpe che schiacciavano qualche foglia secca. Magari hai corso su una ciclopedonale lungo un fiume, con l’aria fresca e la sensazione di essere esattamente dove dovevi essere.
Oppure no.
Oppure sei uscito e hai dovuto fare lo slalom tra le auto parcheggiate in doppia fila, respirando a pieni polmoni i fumi di scarico di un autobus. Magari hai corso su un marciapiede talmente dissestato da sembrare un percorso a ostacoli, con il terrore di mettere un piede in fallo a ogni passo. O magari, semplicemente, hai pensato che quel parco di sera è meglio evitarlo, perché non è abbastanza illuminato e non ti fa sentire al sicuro.
C’è chi corre nei parchi, tra i pini marittimi, il profumo dell’erba tagliata e i bambini che gridano poco lontano. E poi c’è chi corre saltando buche, schivando motorini sui marciapiedi e con l’aria che sa di marmitta.
Tecnicamente, entrambi stanno correndo. Ma è davvero la stessa esperienza?
Correre è democratico. Correre è democratico?
Da fuori, la corsa sembra la cosa più semplice del mondo.: scarpe, tempo libero e via. È “democratica” si dice spesso – ma come molte democrazie, lo è solo sulla carta. Perché poi nella realtà entrano in gioco fattori meno poetici e più urbani: dove abiti, se ci sono parchi, se hai un marciapiede intero o spezzettato tra pali della luce e auto parcheggiate male.
La domanda nasce da qui. Dalla differenza abissale che passa tra queste due esperienze. Ci ripetiamo spesso, come un mantra rassicurante, che la corsa è uno sport democratico. E in fondo è vero: bastano un paio di scarpe e la voglia di muoversi. Ma siamo sicuri che questa democrazia non sia solo teorica?
Insomma: sei fortunato o hai diritto di esserlo?
Il test della nonna
Quasi nessuno si sveglia al mattino pensando: “Com’è messa la mia città in termini di inclusività sportiva?”. Anche perché suona vagamente da sindaco in campagna elettorale.
Eppure, fermati un attimo: ci hai mai pensato? La qualità di una città, quando corri, si misura anche così. Non solo se ha la pista ciclabile, ma se puoi correrci senza dover trattare ogni passaggio pedonale come una roulette russa. Se puoi correre anche dopo il tramonto. Se ci sono fontanelle.
Ecco il test definitivo: se tua nonna, con un deambulatore, riuscirebbe a percorrere quel tratto che a te sembra una passeggiata, allora quella è una città fatta bene.
Una città inclusiva non è solo quella senza barriere architettoniche evidenti. È una città che progetta i suoi spazi pensando a tutti: al bambino che vuole giocare, all’anziano che vuole passeggiare, alla ragazza che vuole tornare a casa a piedi la sera e, sì, anche a te che vuoi correre senza rischiare la vita.
L’inclusività parte dal basso (letteralmente, dall’asfalto)
Parlare di inclusività spesso richiama scenari più ampi: diritti civili, parità, rappresentanza. Ma anche correre senza sentirsi in pericolo fa parte del pacchetto.
Se per correre sei costretto a prendere la macchina per arrivare al parco più vicino, non sei esattamente in una città “per runner”. Se il tuo quartiere non ha un marciapiede decente o l’unico spazio verde è un’aiuola spelacchiata usata dai cani, c’è qualcosa che non funziona.
L’inclusività vera significa permettere a chiunque – con qualsiasi livello di forma fisica, età o abilità – di potersi muovere in sicurezza. Significa parchi sicuri e ben illuminati, marciapiedi larghi e curati, percorsi che non si interrompono nel nulla, fontanelle pubbliche, aria più pulita.
Significa poter fruire della propria città in modo attivo, senza sentirsi un ospite tollerato o, peggio, un bersaglio mobile nel traffico.
Le città che hanno capito tutto

Alcune città europee hanno fatto del “muoversi bene” una bandiera, e i risultati si vedono.
A Copenaghen, la cultura della bicicletta ha contaminato anche chi corre. Percorsi dedicati, illuminati, segnalati. Non sono corsie di fortuna ricavate dove c’era spazio, ma infrastrutture pensate appositamente.
A Oslo, il centro è pedonalizzato e il verde sembra studiato a tavolino per rilassare pure gli occhi. Correre lì non è un’impresa eroica, è parte della vita quotidiana.
Parigi sta investendo per diventare “la capitale mondiale del 15 minuti”: tutto deve essere raggiungibile a piedi o in bici in un quarto d’ora. Questo include anche luoghi dove puoi correre senza dover pianificare spostamenti strategici.
Attenzione: non sono paradisi urbani perfetti. Ma è interessante notare quanto la “corsa” sia integrata nella vita urbana, non relegata a un’attività da fare solo in certi quartieri privilegiati o dopo esserti spostato in auto. Non è un lusso per pochi. È parte della vita quotidiana per tutti.
La domanda scomoda
E noi? Quale lezione possiamo imparare? Si può applicare anche qui?
Dipende. Ma la risposta più scomoda è un’altra: lo sai che potresti anche pretenderlo?
Lo sai che esistono regolamenti, piani urbanistici, bilanci partecipati, petizioni? E che il diritto a muoversi in modo sicuro non è uno sfizio da runner viziati, ma una questione di salute pubblica, inclusività e cittadinanza?
Non serve diventare attivisti implacabili, ma sapere che puoi chiedere – e ottenere – di più non è un optional. È parte dell’essere cittadino. Una città che funziona per chi corre, spesso funziona per tutti. Un marciapiede senza buche serve a te, ma anche a chi spinge un passeggino o a una persona in sedia a rotelle. Un parco ben illuminato serve a te, ma aumenta la sicurezza percepita da chiunque.
Chiedere di più non è un lamento, è un atto di cittadinanza.
Te ne accorgi?
Se corri e ti senti libero, bene: tienilo stretto. Ma chiediti anche se questa libertà è per tutti. Se tua madre ci riuscirebbe. Se un ragazzino in sedia a rotelle potrebbe attraversare quella rotonda che tu schivi agilmente. Se quella zona della città – la tua – è pensata anche per chi ha meno forza, meno tempo, meno opportunità.
Non dare per scontato quello che hai, ma non accettarlo come il massimo possibile. Forse hai la fortuna di vivere in un posto meraviglioso per correre e non ci hai mai fatto caso. Bene, prendine coscienza, apprezzalo. È una fortuna che merita di essere riconosciuta.
Se invece ogni tua uscita è una piccola battaglia urbana, non pensare che sia normale. Non lo è.
La corsa è un test
Pensare a queste cose non toglie nulla alla tua corsa. Anzi, la rende più completa. Perché correre non è solo un modo per fuggire dalla città, ma anche per osservarla. E magari cambiarla.
La prossima volta che esci, guardati intorno. Non per giudicare, ma per capire. Sei fortunato? E se lo sei, puoi fare qualcosa per chi non lo è? Si può fare in tanti modi: scrivendo all’assessore allo sport o all’urbanistica del tuo comune, partecipando alle assemblee di quartiere, sostenendo le associazioni locali che si occupano di vivibilità urbana.
A volte basta poco per innescare un cambiamento. A volte basta far notare che quello che sembra impossibile, altrove è già realtà.
Quindi?
Quindi, correre è un privilegio?
Correre in sé, no. L’atto resta meravigliosamente democratico. Ma poterlo fare bene, in sicurezza e con gioia, quello sì, rischia di esserlo. E dipende da una cosa sola: dove vivi.
La corsa dovrebbe essere un diritto, non una fortuna geografica. Dovrebbe essere possibile per tutti, non solo per chi ha la fortuna di abitare nel quartiere giusto o di avere l’auto per spostarsi altrove.
La prossima volta che corri, prova a guardare la tua città con occhi diversi.Non solo come un percorso da completare, ma come uno spazio di cui fai parte. E chiediti se è davvero uno spazio per tutti.
Perché forse è proprio lì, in quella domanda, che inizia il cambiamento. Un passo alla volta.



Complimenti per l’articolo e il tema proposto. Vi seguo anche sui podcast, grande compagnia durante le mie corse.
Per me correre, soprattutto in ambienti meravigliosi, è un privilegio, un qualcosa che mi permette di godere di panorami, sensazioni ed emozioni molto intense che sono precluse a tantissime persone. Essere ancora in forma a quasi 67 anni significa molto: allenarsi costa fatica ma ho la fortuna di adorarla. Ed anche questo è un privilegio.