Ecco perché tanti atleti italiani vestono la divisa

Ecco come il sistema sportivo italiano unisce forze armate e atleti d’élite, sostenendo i campioni con strutture e stabilità uniche al mondo

Ti sarà capitato di notarlo: quando in TV vedi Marcell Jacobs o Gianmarco Tamberi, non indossano solo la maglia azzurra. Dietro le loro imprese ci sono anche delle stellette cucite sul petto. Non è un vezzo scenico, ma la normalità di gran parte dello sport italiano: molti campioni e campionesse appartengono a corpi militari o di polizia. Strano, eppure, in Italia, funziona così da più di mezzo secolo.

Una tradizione tutta italiana

Il connubio tra divisa e atletica non è un’invenzione recente. Già alle Olimpiadi di Roma 1960 Livio Berruti – occhiali da sole, falcata elegante e oro nei 200 metri – fu soprannominato “il poliziotto più veloce del mondo”. Il modello nacque nel dopoguerra, quando lo Stato decise di sostenere i migliori talenti attraverso i corpi armati. Invece di lasciare gli atleti in balia di sponsor e lavori part-time, li arruolava. Così nascevano gruppi come le Fiamme Oro della Polizia di Stato, poi seguite dalle Fiamme Gialle della Guardia di Finanza, dai Carabinieri, dall’Esercito e da altri corpi.

Oggi il sistema è vasto: otto gruppi sportivi, circa 1.200 atleti arruolati e una percentuale che sfiora il 70% della spedizione olimpica italiana. In pratica, dietro la maggior parte delle medaglie azzurre c’è un corpo delle forze dell’ordine.

Fiamme Oro, Fiamme Gialle e tutte le altre

Non tutte le divise sono uguali. Le Fiamme Oro della Polizia hanno dato casa a Jacobs e Tamberi, ma anche a schermidori come Bebe Vio. Le Fiamme Giallehanno fatto crescere Filippo Tortu e, in passato, lo stesso Tamberi. I Carabinierihanno avuto tra le loro fila Alberto Tomba e Armin Zöggeler, mentre l’Esercitoha accolto il judoka Fabio Basile, oro a Rio 2016. L’Aeronautica ha sostenuto Giuseppe Gibilisco e Andrew Howe, la Marina è legata alla vela e agli sport acquatici, le Fiamme Azzurre della Polizia Penitenziaria hanno arruolato Pietro Mennea, e persino i Vigili del Fuoco hanno la loro squadra, con Jury Chechi come simbolo.

Ogni corpo ha le sue specialità, ma la logica è identica: selezionare giovani promesse tramite concorsi pubblici, arruolarle e permettere loro di allenarsi senza il peso economico.

Perché conviene (agli atleti e allo Stato)

Per uno sprinter o un saltatore, la vita fuori dal calcio è fatta di sacrifici e stipendi precari. Entrare in un gruppo sportivo significa avere uno stipendio regolare, strutture di alto livello, medici, fisioterapisti, tecnici. Significa poter programmare la carriera senza dover fare un altro lavoro per vivere e permettersi di allenarsi, salvando in tal modo molte energie e concentrazione da dedicare alla preparazione sportiva. E, soprattutto, significa avere un futuro anche dopo la fine dell’attività agonistica: un posto all’interno del corpo, un ruolo, una stabilità che nello sport professionistico italiano non è scontata.

Dal lato dello Stato, l’investimento è un forma di moderno mecenatismo: i corpi militari sostengono i talenti e in cambio ottengono visibilità, orgoglio nazionale e un ritorno d’immagine.

Pregi e rischi di un sistema unico

C’è ovviamente anche un rovescio della medaglia. C’è chi parla di “militarizzazione” dello sport, di gradi assegnati più per medaglie che per servizio. C’è chi teme che questo modello, diventato quasi l’unico, riduca lo spazio per altre forme di professionismo sportivo. Un adolescente che entra in un corpo sportivo si trova a vivere presto il sogno come un lavoro, con regole e disciplina che non tutti riescono a reggere.

Eppure i risultati parlano chiaro: senza questo sistema, molte carriere si sarebbero interrotte sul nascere. La resilienza di Tamberi dopo l’infortunio del 2016 o la parabola di Bebe Vio sono esempi di quanto il sostegno istituzionale possa fare la differenza. Oltre, naturalmente, anche al sostegno degli sponsor, che però non è scontato per tutti gli atleti e le atlete, e a cui riescono ad ambire solo quelli e quelle che ottengono risultati migliori.

Una particolarità italiana

In altri Paesi gli atleti devono incastrare studio, lavoro e allenamenti. In Italia, li vediamo salire sul podio con una medaglia e una divisa. È una soluzione creativa, quasi paradossale, ma che ha funzionato: trasformare una fragilità (la mancanza di un professionismo diffuso) in un punto di forza.

Così capita che i nostri campioni servano il Paese due volte: da atleti, facendo sognare milioni di persone, e da membri delle istituzioni. In Italia lo facciamo così.

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