Dietro ogni runner che taglia il traguardo c’è un eroe silenzioso che ha tenuto la giacca, sopportato le sveglie all’alba e aspettato ore al freddo.
- I partner dei runner (i “non-runner”) svolgono un lavoro oscuro e fondamentale, spesso sottovalutato.
- La preparazione di una gara coinvolge tutta la casa: sveglie impossibili, diete rigide e monologhi infiniti sui tempi al chilometro.
- Il ruolo del partner sherpa è poliedrico: autista, psicologo pre-gara, fotografo e custode degli oggetti di valore.
- L’atto d’amore più grande è l’attesa: stare ore in piedi, magari sotto la pioggia, per vedere il proprio caro passare per pochi secondi.
- Accettare l’abbraccio finale (spesso sudato e appiccicoso) è la prova definitiva di affetto incondizionato.
- Quella medaglia che ci mettiamo al collo appartiene, per almeno il 50%, a chi ci ha permesso di arrivare fin lì.
A tutti quelli che ci aspettano alle transenne: questo è per voi
Ogni domenica, in ogni città del mondo dove si corre una gara, ci sono migliaia di persone vestite con materiali tecnici fluorescenti, cariche di adrenalina, che si preparano a soffrire per 10, 21 o 42 chilometri. E poi, appena fuori dalle transenne, c’è un altro esercito.
Sono vestiti con abiti civili, spesso hanno in mano giacche a vento non loro, zaini pesanti, borracce extra. Hanno lo sguardo un po’ assonnato ma vigile, e controllano ossessivamente un’app di tracciamento sul telefono.
Sono i nostri partner. Mariti, mogli, fidanzati, fidanzate che non corrono. O meglio, che non corrono con le gambe, ma che corrono con la pazienza. Sono gli eroi silenziosi del nostro sport, quelli che non ricevono la medaglia al collo, non compaiono nelle classifiche ufficiali, ma senza i quali molti di noi non arriverebbero nemmeno alla linea di partenza. È giunto il momento di ringraziarli tutti, i nostri personalissimi sherpa.
L’arte di sopportare un runner in preparazione (sveglie, fame, ansia)
Diciamocelo chiaramente: vivere con un runner sotto gara è un’esperienza che metterebbe a dura prova la santità di chiunque. Il runner in preparazione è un essere monomaniacale, egocentrico e socialmente complicato.
Voi siete quelli che sopportano la sveglia alle 5:30 della domenica mattina, quando fuori è buio e l’unica cosa sensata da fare sarebbe dormire abbracciati. Invece, noi scivoliamo fuori dal piumone cercando di non fare rumore (fallendo miseramente), accendiamo luci, cerchiamo calzini, imprechiamo sottovoce. E voi, nel dormiveglia, ci perdonate.
Siete quelli che ascoltano i nostri interminabili monologhi su argomenti di un interesse nullo per il resto dell’umanità: la differenza di drop tra due scarpe, il dolore al bicipite femorale, l’ansia per il meteo previsto tra tre settimane.
La vostra pazienza nel non mandarci a quel paese ogni volta che diciamo “oggi sono stanco, ho fatto le ripetute” meriterebbe un monumento in piazza.
Il ruolo dello sherpa: autista, fotografo, psicologo, porta-borse
Il giorno della gara, il partner si trasforma. Diventa una figura mitologica multitasking.
Prima di tutto, è l’autista ufficiale, colui o colei che ci scarica in zone industriali desolate o centri storici bloccati dal traffico, gestendo la nostra ansia da parcheggio.
Poi diventa psicologo sportivo: ascolta le nostre paranoie dell’ultimo minuto (“Mi fa male il ginocchio”, “Ho sbagliato calzini”, “Non ce la farò mai”) e ci rassicura con frasi che ha imparato a memoria, anche se non sa cosa significhi “negative split”.
Ma soprattutto, diventa il mulo da soma (lo Sherpa, appunto). Appena prima dello sparo, noi ci spogliamo come se fossimo a casa nostra, lanciando felpe, pantaloni, chiavi della macchina e telefoni verso di voi. E voi rimanete lì, carichi come alberi di Natale, a custodire i nostri averi mentre noi andiamo a divertirci (o a soffrire).
E non dimentichiamo il ruolo di fotografo: appostati in curve improbabili, cercando di scattare la foto perfetta in cui sembriamo atleti keniani, mentre nella realtà siamo paonazzi e con la bava alla bocca. E se la foto viene mossa? Ovviamente è colpa vostra.
L’attesa al traguardo: l’atto d’amore più grande
Se correre una maratona è dura, aspettare qualcuno che corre una maratona è noioso. Terribilmente noioso.
Mentre noi siamo in viaggio (soffrendo ma almeno la scena attorno a noi cambia), voi siete lì che aspettate. Magari piove. Magari tira vento. Magari non c’è nemmeno un bar aperto. State lì a fissare un punto su una mappa digitale che si muove con una lentezza esasperante.
Calcolate i tempi, vi spostate da un punto all’altro della città prendendo metropolitane affollate solo per vederci passare per 7 secondi netti, urlare “VAI!” e ricevere in cambio, forse, un cenno della mano distratto.
E poi, l’arrivo. Quando finalmente tagliamo il traguardo, distrutti ma felici, cerchiamo voi. E voi siete lì, alle transenne, sorridenti. Ci abbracciate. E notate bene: noi siamo fradici di sudore, appiccicosi, puzziamo di fatica e gel energetici. Voi siete puliti e profumati. Eppure ci abbracciate lo stesso, senza esitazione. Se questo non è amore, non sappiamo cosa lo sia.
La medaglia la portiamo noi, ma metà è vostra
Alla fine ci mettono una medaglia al collo. La mordiamo, la postiamo su Instagram, la appendiamo in casa con orgoglio. Ci sentiamo fieri.
Ma la verità, e lo sappiamo bene anche se a volte ci dimentichiamo di dirlo, è che quella medaglia è pesante. E metà di quel peso è sostenuto da voi.
È fatta della vostra pazienza, dei vostri weekend sacrificati, delle vostre parole di incoraggiamento quando volevamo mollare, delle cene preparate quando tornavamo troppo stanchi per cucinare.
Quindi, caro runner che stai leggendo: la prossima volta che finisci una gara, prima di guardare il Garmin, guarda chi ti sta aspettando. Offri loro una cena (vera, non da dieta dell’atleta!). E di’ semplicemente grazie. Perché senza il nostro sherpa, la vetta sarebbe molto più difficile da raggiungere, e incredibilmente solitaria.


