Terry Fox: l’atleta che ha cambiato la corsa e la vita di milioni di persone

Ci sono storie che non hanno bisogno di effetti speciali, di montaggi epici o di colonne sonore orchestrali. Sono storie che bastano a sé stesse, come certe pagine di Hemingway: asciutte, rudi, capaci di colpire più a fondo proprio perché non cercano di farlo. La storia di Terry Fox è una di queste.

Quando Terry iniziò la sua “Marathon of Hope” nel 1980, aveva 21 anni, una gamba in meno e un sogno che sembrava più grande del Canada stesso: attraversare il suo Paese da un oceano all’altro, correndo una maratona al giorno, per raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro. La diagnosi che gli aveva cambiato la vita – osteosarcoma, un tumore osseo – non lo aveva solo privato di una gamba, ma aveva acceso in lui una determinazione incandescente, simile a quella scintilla che a volte ti fa scegliere di non mollare, anche quando tutto intorno sembra franare.

Allenarsi dopo l’amputazione era già un’impresa. Terry cominciò a correre usando una protesi rudimentale, pensata più per camminare che per affrontare decine di chilometri al giorno. Ogni passo era una lotta contro la gravità, contro il dolore, contro la meccanica imperfetta di un corpo che aveva deciso di non arrendersi. Se ci pensi, è un po’ come suonare la chitarra dopo essersi tagliati un dito: il gesto resta, ma ogni movimento richiede una volontà nuova, assoluta.

Non era solo una questione fisica. Terry sapeva che per affrontare un viaggio simile serviva una corazza mentale ancora più robusta. Gli allenamenti erano massacranti, ma ancora più duro era mantenere accesa la fiamma interiore, giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro. Come nelle canzoni di Leonard Cohen, dove la luce entra solo attraverso le crepe, anche Terry lasciava passare la sua forza dalle ferite.

Partì da St. John’s, sull’Oceano Atlantico, il 12 aprile 1980. Da solo, sotto la pioggia, con pochi testimoni. Nessun clamore, nessuna retorica. Solo la voglia di dimostrare che il cancro poteva togliergli una gamba, ma non il diritto di sperare. Correre, per lui, era diventato un atto politico, un modo per ribaltare il destino a colpi di passi lenti e ostinati.

I chilometri si accumulavano. E con loro, il dolore. Terry correva con un’andatura spezzata, un ritmo irregolare che sembrava una danza tragica e insieme meravigliosa. La protesi batteva sull’asfalto con un suono secco, come un metronomo sbilenco che marcava il tempo della sua resistenza. Ma la gente cominciò ad accorgersi di lui. Prima decine, poi centinaia, poi migliaia di persone scesero a incitarlo, a correre con lui, a donare.

Purtroppo, la malattia non aveva ancora finito con lui. Dopo 143 giorni e 5.373 chilometri percorsi, Terry fu costretto a fermarsi: il cancro era tornato, questa volta ai polmoni. Morì meno di un anno dopo, il 28 giugno 1981, a 22 anni.

Ma il suo viaggio non si è mai davvero fermato.

Oggi la “Marathon of Hope” è diventata la Terry Fox Run: un evento globale, celebrato ogni anno in oltre 60 Paesi. Più di 850 milioni di dollari sono stati raccolti in suo nome per la ricerca contro il cancro. E soprattutto, Terry Fox è diventato un’idea: quella che il coraggio non consiste nell’essere invincibili, ma nel continuare a provarci anche quando sei certo che cadrai.

In un mondo che tende a celebrare la forza come dominio sugli altri, Terry ci ha ricordato che la forza più autentica è quella che si esercita su sé stessi, senza proclami, senza premi, senza garanzie. Come certi finali di film di Wim Wenders: aperti, dolorosi, eppure infinitamente pieni di senso.

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