Zio Sandro ha sempre sostenuto che andare a correre quando fuori piove è una delle migliori cose che si possa fare.
Sarà. Ma questa sua teoria non mi ha mai convinto fino in fondo. Fino a ieri.Che qui – e per qui intendo quella porzione di terra e cielo e cuore situata al 41° 53′ 35″ N, 12° 28′ 58″ E – le mezze stagioni non esistono più (un po’ come le previsioni e certi uomini) e ti capita che in sette chilometri di sudore e fiato si passi dal sole al diluvio. Di quelli che io avrei volentieri atteso a casa, dietro un vetro con una tazza di chai tea tra le mani e i piedi nudi sul parquet. Invece di trovarmi a otto blocchi dal mio zerbino, con un paio di Nike fucsia che più fucsia non si può e la voce rauca del Boss nelle orecchie.Attendere sotto un balcone che spiova, no – there’s no place left to hide. Il cielo tuona. E se c’è una cosa che nella vita mi riesce peggio di cucinare quella è aspettare. E allora non ti resta che metter su il cappuccio. Alzare il volume. E iniziare a correre, incurante dell’acqua – I want to guard your dreams and visions. Delle pozzanghere che attraversi. Dei capelli che te li eri giocati molto prima. E dovremmo fregarcene un po’ più spesso della piega anche quando fuori c’è il sole. Non ti resta che farlo fino a quando l’acqua nemmeno la senti più perché c’è un momento dopo che l’hai già presa tutta in cui davvero non la senti più. O forse la senti ma ormai è parte di te. Dai vestiti alle ossa. Fino a quando arrivi davanti al portone – Someday girl I don’t know when we’re gonna get to that place. Where we really want to go and we’ll walk in the sun. But till then tramps like us baby we were born to run.
Anche con la pioggia, zio Sandro. Avevi ragione tu.
(Meno un mese alla WeRunRome, #borntorun)