Le cicale oggi impazziscono dal caldo. Nessuno lungo la mia strada, che si chiama Murgana. Ha il nome di un’allucinazione, ma in realtà non è altro che un antico prototipo di circonvallazione che circonda il mio paese dall’esterno e grazie al quale poter muoversi da una campagna all’altra senza dover attraversare il centro abitato. È una strada stretta, la Murgana. Non l’hanno concepita per le auto, anche se ci passano lo stesso.
Ti accorgi che è una strada con tanti anni sulle spalle dal nome che porta. Niente a che fare con le strade di oggi, che quando nascono vengono battezzate con sigle, acronimi, numeri o al limite prendono il nome della tratta riportando i luoghi di inizio e fine, come se fosse la linea d’una metropolitana. Eppure i nomi delle strade sono importanti, ci spiegano perché sono nate: la Salaria, oltre che collegare la sponda tirrenica a quella adriatica, era stata una via fondamentale per il trasporto del sale prima per i Sabini e poi per i Romani che, in quanto a strade, hanno fatto scuola; la via Francigena permetteva ai popoli dell’europa centrale di scendere a Roma e poi continuare fino ai porti della Puglia per imbarcarsi in Terra Santa, il suo nome è dovuto al fatto che la strada nasca proprio dalle terre dei Franchi. E potrei andare avanti, ma restiamo un attimo sulla Murgana.
Dove le strade hanno un nome
Il nome di questa piccola lingua d’asfalto che sto percorrendo potrebbe nascondere numerosi significati: un miraggio al femminile? Magari con tutte le vigne a bordo strada che ci sono c’è da scommettere in momenti d’estasi che accompagnavano le impronte di chi c’è passato prima. Oppure sono tutte queste cicale, riunite in una specie di rave, che ti fanno perdere il contatto con la razionalità? Di certo c’è la strada, un anello che mi permette di tenere costanti il paese da un lato e i campi dall’altro.
Allenarsi in questo periodo ti espone a una miriade di precauzioni. Da qualche anno, ormai, il meteo non è più quell’argomento banale utile per attaccare una conversazione e fuggire da silenzi imbarazzanti. Da qualche anno respiriamo un’emergenza perenne che è diventata regola, infatti la parola “allerta” è ospite fissa nei telegiornali. Di diverso c’ha solo il colore. Ora verde, poi gialla, ogni tanto rossa. L’hanno resa simile a un semaforo perché sembrava un linguaggio comprensibile a tutti, ma di gente che si ferma davvero a pensare ancora ce n’è poca. E poi il semaforo, ogni tanto, qualche multa la produce. L’allerta meteo, invece, sembra più una carta del monopoli che si giocano i sindaci per tenere a bada i pubblici ministeri. Ho il cappello, ho la borraccia piena d’acqua e la scelta del percorso non è stata casuale: per qualsiasi emergenza ci metto cinque minuti a rientrare in paese, d’altronde la Murgana serviva anche a questo. Anche le lucertole evitano il loro solito sfrecciare da un lato all’altro della strada. Se ne stanno nascoste nell’erba, l’asfalto è troppo caldo. Io non ci sono mai stato, ma credo proprio che questo mio piccolo angolo di mondo a metà tra Brindisi e Lecce si stia trasformando in una specie di Messico, ma con le vigne. Ci saranno le cicale nel Messico?
Inaspettatamente il nemico non è il caldo
Corro che il sole sta già tramontando e schizza il cielo di rosa e arancione. Nuvole estinte, vento caldo, un tasso d’umidità scoraggiante. Eppure passati i primi minuti il corpo si adatta senza troppi problemi allo sforzo e la mia corsa diventa un tutt’uno con l’ambiente. Supero una collinetta e mi accorgo che il nemico di oggi non è il caldo che, comunque, si sta dando un gran da fare: davanti a me si estendono due lunghi corridoi neri, in mezzo c’è la mia strada e ai lati è tutto bruciato. Gli incendi ci sono già stati, ma l’aria è pregna di cenere. Sembra di stare a Mordor. Mi lacrimano gli occhi, sono costretto ad alzare il passo per mettermi quanto prima alle spalle quell’odore. Ma è uno sforzo inutile perché poco più avanti incontro folate di scirocco che spingono altre colonne di fumo nella mia direzione. C’è da sentirsi male e, forse, c’è da aggiungere un nuovo significato al senso di allucinazione che ti viene sulla Murgana.
Laddove l’incendio si è già spento riesco a distinguere alcune tracce scoraggianti: i mozziconi di sigaretta a bordo strada, le bottiglie di vetro annerite, alcune taniche in latta. Non serve aggiungere altro. Corro da così tanto tempo su queste strade da conoscere ogni campo e il suo rispettivo proprietario. Molti di loro non sono agricoltori, hanno semplicemente ereditato il terreno dai genitori e nella vita fanno altro, alla campagna riescono a dedicare giusto qualche ora nel fine settimana, quando va bene, e il loro fare sbrigativo si riflette sul come viene portata avanti la terra. Ci sono zone in cui in mezzo agli ulivi pare esserci un pavimento, in alcuni periodi della stagione capita di passare tra sterpaglie che raggiungono l’altezza del mio petto.
Credo siano passaggi di tempo. A mio nonno, guardia campestre, sono capitati gli anni del dialogo tra uomo e campagna. A me sono toccati quelli dello stordimento.
L’altro giorno, telefonando al comando dei Vigili del Fuoco per segnalare l’ennesimo rogo, l’operatore mi aveva risposto che le autobotti erano già impegnate su altri luoghi e che erano già al quarantesimo intervento della giornata. L’orologio della mia auto segnava le dieci e trenta del mattino.
A casa ci metto un po’ a sfilarmi la maglietta di dosso, l’umidità l’ha saldata così bene alla pelle che non si vuole staccare. Quando corro a settembre questo preciso momento assume dei contorni romantici perché è il periodo della vendemmia, le campagne sono in fibrillazione e la mia maglietta è intrisa di mosto d’uva. Oggi è una giornata di metà luglio. Per l’uva c’è ancora tempo. Però fanno già un po’ di estati che a luglio la mia canotta puzza di cenere.
(Andrea Martina)