La sera non corro più, la sera io faccio il giro del mondo

Andrea ha smesso di allenarsi la sera ma ha trovato un modo alternativo di farlo, andando contemporaneamente in giro per il mondo

I silenzi, le ombre lanciate dai lampioni, quella patina di goccioline che si organizza sulle carrozzerie delle automobili. E potrei andare avanti a lungo con tutti quei piccoli elementi che rendono speciale una corsa fatta di sera.

Prima del lockdown non avevo mai contemplato l’ipotesi di allenarmi dopo il tramonto per una ragione di fondo: i miei percorsi erano tutti in aperta campagna e il mio piccolo paese è sprovvisto di piste ciclabili. L’emergenza sanitaria, oltre a svuotare le strade dalle automobili in particolari ore della giornata, mi ha fatto scoprire una novità, soprattutto nel periodo invernale. Una volta arrivato novembre, infatti, il ritorno all’ora solare mi costringeva spesso a rinunciare alla corsa per colpa delle poche ore di luce dedicate tutte a impegni di lavoro vari. Introdurre la “sessione” serale è stata una svolta a cui si aggiungeva un pizzico di fascino nel riappropriarsi di strade vuote, violentate solo un attimo prima dalla frenesia quotidiana.

A questa piccola conquista è seguita un’immediata rinuncia.

Quando quest’anno mi hanno assegnato una supplenza in una scuola serale per adulti di Sassuolo ho subito pensato che gli allenamenti serali sarebbero stati solo un ricordo.

Tornando a casa dopo una giornata di lavoro, incrocio runner in tenute fluo che tagliano la notte e provo un po’ di nostalgia. È tanta la voglia di unirmi a loro, di ficcarmi in quell’ultimo atto quotidiano dove la corsa diventa una specie di lavatrice della giornata che è stata, ma il mio orologio degli allenamenti si è spostato sulla mattina.

Anche l’idea di accettare l’incarico della scuola serale non è stata affatto semplice, ma si sa, il precariato non è un recinto per schizzinosi. Avevo ancora nella testa i bei ricordi delle classi dell’anno scorso, prime e seconde medie in grado di rendere ogni giornata un’avventura e farmi sentire un punto di riferimento, e mi trovavo costretto ad azzerare tutto e prepararmi a classi di adulti alla conquista della licenza media.

Il primo giorno è stato come uno schiaffo.

Tornando a casa, ho sperato di trovare una mail di una qualsiasi scuola che mi consentisse di rinunciare a quella supplenza e insegnare da qualche altra parte. Niente, dovevo rimanere lì. Un’ala dimenticata di una scuola media che gentilmente ci concede un paio di aule la sera, uno sgabuzzino spacciato per sala professori con tanto di crepa a vista che scorre carsica lungo le pareti, lavagne in ardesia a un passo dalla resa e l’assenza di materiale didattico sul quale preparare una lezione.

Pensavo che quella non poteva essere che una punizione.

Poi è arrivato il momento di sporcarsi le mani, di conoscere gli studenti che avevo davanti.

Lì è cambiato tutto.

Al serale per adulti ci vanno quasi esclusivamente studenti stranieri arrivati in Italia da poco tempo, con le necessità più disparate: aprire una partita IVA, la cittadinanza, la partecipazione a un concorso, migliorare la lingua, fare una nuova esperienza, arricchirsi, porsi un obiettivo. Un unico filo conduttore tiene insieme queste storie ed è la forza di volontà.

Mi sono trovato ad accogliere studenti che avevano i segni della calce sulle mani, oppure la tuta da operaio ancora addosso perché si era entrati in straordinario e non c’era il tempo per passare da casa, farsi una doccia e tornare a scuola. Quando c’è l’ultima ora di lezione, quella che va dalle 19.30 alle 20.30, mi accorgo che ogni tanto scappa qualche sbadiglio o che gli occhi si stringono più del solito mentre provano a guardare cosa ho scritto sulla lavagna, eppure per loro la presenza a scuola è vitale. La felicità per aver fatto un passo avanti è la stessa dei ragazzini.

Ci sono giorni in cui in aula io sono quello più giovane.

In un mese di supplenza al serale ho fatto un po’ il giro del mondo stando solo in due classi. I miei studenti vengono da: Marocco, Cuba, Siria, Nigeria, Burkina-Faso, Ucraina, Tunisia, Brasile, Moldavia, Portogallo, Repubblica Dominicana, Grecia, Pakistan, Francia, Ghana, Kenya, Guinea e… Italia. Insegno lettere e capisco ogni giorno di più quanto sia vitale conoscere una lingua, ho imparato alcune parole arabe, mi sono trovato a migliorare il mio inglese proprio per il bisogno di trovare un territorio condiviso quando non si riesce a comunicare bene, ho una percezione del mondo e della vita pratica totalmente diversa e arricchita rispetto a prima.

Ma c’è un fatto che più di tutti sta rendendo la mia esperienza al serale davvero illuminante. Quando finisco di fare lezione, gli studenti lasciano l’aula e prima di salutarmi mi dicono “grazie, prof”. Grazie. Insegnando di mattina non ho sentito così spesso quella parola e credo anche di averla detta molto raramente da studente ai miei professori.

La scuola in Italia è un diritto, e dev’essere sempre così. Il problema è che la nostra cultura tende a mascherare i diritti acquisiti in cose che diamo troppo spesso per scontate. Può sembrare strano, ma a sbatterci in faccia la nostra condizione di privilegiati deve venire per forza qualcuno da fuori che magari ha visto la scuola solo come un miraggio, come un ghetto per ricchi o come qualcosa di non necessario dal momento che certe volte la vera urgenza non è studiare, ma organizzarsi per campare.
Tutte le storie che sto incrociando al serale condividono un luogo d’arrivo e un senso di gratitudine.

La sera non corro più, la sera sono troppo impegnato a fare il giro del mondo.

Andrea Martina

(Credits immagine principale: leszekglasner on DepositPhotos.com)

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